• Biblion Edizioni

Emilio Sereni, la guerra fredda e la “pace partigiana”

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  • Autore: Marco De Nicolò
  • Anno: 2020
  • Pagine: 324
  • Prezzo: € 34.00

Il volume qui presentato rappresenta innanzitutto un capitolo importante della storia politica e culturale del periodo indicato nel titolo. Si tratta di una narrazione ricca di sfumature, precisazioni e scoperte rivolta anche a un pubblico colto non accademico. Non ci sono, per fortuna, presunti scoop storiografici, ma precisazioni con cui De Nicolò ricostruisce un periodo in cui, fra l’alleanza antifascista degli anni della Resistenza, l’irrigidimento dei rapporti fra i blocchi e la vera e propria guerra fredda, c’è stata una breve fase che diede spazio anche alle incertezze, alle ipotesi di una “terza via” equidistante, alle perplessità dei cattolici verso un allineamento senza riserve con l’alleanza atlantica e al loro interesse per una politica di pace. Il volume arricchisce e riequilibra anche la lettura delle politiche del PCI del periodo rispetto a una storiografia che ne legge le scelte principali dall’esclusivo punto di vista del suo rapporto con l’URSS e con il COMINFORM individuando gli spazi di scelte specifiche, adatte al contesto nazionale e alle sue culture e un’autentica simpateticità con tendenze di massa presenti in Italia: diffidenza per la cultura degli USA (o per la sua rappresentazione spesso caricaturale), insofferenza per le minacce di guerra dopo la prova dolorosissima appena superata. Il volume ci permette di conoscere meglio la politica culturale del PCI nell’immediato dopoguerra e di entrare da vicino nel laboratorio di un movimento di massa, i “partigiani della pace”, che spesso ha ricevuto una trattazione troppo sintetica e superficiale. Il volume chiarisce – pur senza porlo esplicitamente – un altro problema interpretativo posto dalla politica del PCI dopo il ritorno di Togliatti dall’URSS e la “svolta di Salerno”. Una storiografia caratteristica degli anni ’70 – cito solo per brevità Liliana Lanzardo – aveva narrato una vicenda molto più condizionata dalle esperienza sociali. Da una parte le speranze dei mondi del lavoro di liberarsi da sfruttamento e feroce disciplina della fabbrica fascista, con l’opposizione allo sblocco dei licenziamenti; dall’altra un PCI soprattutto, anche se non esclusivamente, attento a calibrare le proprie politiche in base alla partecipazione o alla esclusione dal governo.
Qui entrano più direttamente in campo gli aspetti del volume che riguardano Emilio Sereni, precisando che non si tratta di una biografia ma di una messa a punto tematica. Le peculiarità della “ortodossia” marxista-leninista del “compagno che sa tutto” e del suo impegno come dirigente del PCI fino all’assunzione della guida dell’Alleanza nazionale contadini nel ’55, il più coerente con le sue competenze fin dalla tesi di laurea sulla colonizzazione ebraica della Palestina presso la Scuola di Agricoltura di Portici, ci suggeriscono di riprendere un tema caro a Luigi Cortesi, che distingue con molta nettezza le generazioni presenti nel PCI del secondo dopoguerra (ma la distinzione vale anche per i partiti socialisti). Pochissimi anni di differenza bastano a individuare due percorsi molto diversi. I giovani lavoratori e i pochi studenti che aderiscono alla militanza sindacale, alla sinistra socialista e poi al PCd’I fra la contestazione alla guerra di Libia e il cosiddetto biennio rosso avevano fatto una scelta classista: ciò vale per socialisti, comunisti, sindacalisti rivoluzionari, da Tasca a Di Vittorio, da Gramsci a Bordiga, o alla famiglia Montagnana e a migliaia di militanti sconosciuti. Pochissimi anni di distanza (o una esperienza formativa diversa) separano i militanti che abbiamo indicato da Carlo Rosselli, giovanissimo interventista “di sinistra” risorgimentale, o da Giorgio Amendola ed Emilio Sereni, entrambi del 1907, che entrano in politica in quanto antifascisti. Per Amendola e Sereni l’incontro col PCI è determinato innanzitutto dalla sua capacità di caratterizzarsi come la forza antifascista più coerente e presente sia in Italia sia nell’emigrazione. Ciò spiega, del resto, anche la scelta di altri giovani per Giustizia e Libertà. Il legame con l’URSS di questa generazione di antifascisti non è tanto – come osserva con finezza De Nicolò – determinato dal ricordo della rivoluzione e quindi da un internazionalismo delle lotte operaie (come era stato quello delle due precedenti Internazionali), ma dall’ammirazione per le realizzazioni di uno Stato che aveva garantito la sconfitta della Germania nazista (oltre a fornire, ma questa è un’altra questione, una risorsa simbolica e immaginaria per i militanti e gli elettori). Insomma, si poteva, negli anni Cinquanta, declinare il proprio legame con l’URSS come volontà di tenere aperta la possibilità di una via non parlamentare e di mantenere un legame con le promesse egualitarie dell’insurrezione dell’aprile 1945, come fecero non tanto Pietro Secchia quanto i militanti che a lui facevano riferimento.
Si poteva considerarlo un aspetto, polemico con la promozione di una generazione di giovani intellettuali di origine borghese, del proprio impegno classista. Invece per il Sereni organizzatore della politica culturale e del movimento per la pace quelle scelte sono da interpretare come assecondamento della politica togliattiana di superamento dei limiti (o presunti tali) del radicamento classista dei partiti operai in direzione di un dialogo con altri ambienti e con un orizzonte umanistico e universalistico di cui si parla proprio alla fine del volume, rievocando l’apprezzamento del cardinale Schuster per la personalità di Sereni. Cito qui, a conferma dell’analisi di De Nicolò, un indizio del rapporto, qualche volta contraddittorio, fra la mobilitazione per la pace e la coscienza operaia più diffusa. L’operaio delle Acciaierie di Terni Luigi Trastulli venne ucciso il 17 marzo 1949 in una manifestazione contro l’adesione alla NATO. De Nicolò ricorda (pp. 144-145) che nella segreteria del PCI si discusse anche di conferirgli un premio postumo come combattente per la pace. Ma secondo l’appassionante ricostruzione di Alessandro Portelli (L’uccisione di Luigi Trastulli. Terni, 17 marzo 1949. La memoria e l’evento, Provincia di Terni, 1999) attestata dalla canzone popolare dedicata a Trastulli («nel fior degli anni ha trovato la morte/ ma non uccisero il grande ideal») la sua morte, nella memoria locale, viene spostata al ’53, nel corso delle manifestazioni – che si confrontarono con una repressione non meno spietata – contro i licenziamenti delle Acciaierie. Il «grande ideal» era dunque innanzitutto la difesa non solo del lavoro, ma della comunità di vite e di lotte rappresentata dalle Acciaierie. Come si è detto in precedenza, nel ’55 Sereni lascia la direzione del movimento dei partigiani della pace, ormai sulla via del declino, per un impegno molto più vicino alle sue competenze e ai suoi interessi di lungo periodo, che riguardano la storia rurale e della formazione e articolazione delle classi nel mondo agricolo. Temi nei quali il rapporto col marxismo non passa da una vera o presunta “ortodossia” sovietica, ma da un corpo a corpo intenso con le fonti, rafforzato dalla sua pratica di organizzatore. Nel capitolo iniziale l’autore fa il punto sul fiorire tardivo e in parte inatteso di un interesse anche biografico per questo dirigente di una stagione lontana e politicamente rimossa. Fra i lavori che hanno preparato questo interesse, oltre al Gioco dei regni di Clara Sereni, si sarebbe anche potuto ricordare l’epistolario con Enzo, in cui i due fratelli, separati ben presto da scelte diverse rispetto all’emigrazione nell’allora Palestina mandataria, rivelano domande e percorsi culturali a lungo simili e comunque vicini (Politica e utopia. Lettere 1926-1943, a cura di David Bidussa e Maria Grazia Meriggi, La Nuova Italia, Firenze, 2000). Ma il volume, anche attraverso lo scavo delle fonti del Ministero degli Interni, ricostruisce un periodo ben determinato con grande precisione e vivacità.

Maria Grazia Meriggi